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Il vecchio violino
A una vendita all’asta, il banditore sollevò un violino. Era graffiato e scheggiato. Le corde pendevano allentate e il banditore pensava non valesse la pena perdere tanto tempo con il vecchio violino, ma lo sollevò con un sorriso. “Che offerta mi fate, signori?”, gridò. “Partiamo da… 100 mila lire!”.
“Centocinque!”, disse una voce. Poi centodieci. “Centoquindici!”, disse un altro. Poi centoventi. “Centoventimila lire, uno; centoventimila lire, due; centoventimila lire…”.
Dal fondo della stanza un uomo dai capelli grigi avanzò e prese l’archetto. Con il fazzoletto spolverò il vecchio violino, tese le corde allentate, lo impugnò con energia e suonò una melodia pura e dolce come il canto degli angeli.
Quando la musica cessò, il banditore, con una voce calma e bassa, disse: “Quanto mi offrite per il vecchio violino?”. E lo sollevò insieme con l’archetto.
“Un milione, e chi dice due milioni? Due milioni! E chi dice tre milioni? Tre milioni, uno; tre milioni, due; tre milioni e tre, aggiudicato”, disse il banditore.
La gente applaudì, ma alcuni chiesero: “Che cosa ha cambiato il valore del violino?”. Pronta giunse la risposta: “Il tocco del maestro”.
Siamo vecchi strumenti impolverati e sfregiati. Ma siamo in grado di suonare sublimi armonie. Basta il tocco del Maestro.
da A volte basta un raggio di sole di Bruno Ferrero, [www.avventisti.it]
A una vendita all’asta, il banditore sollevò un violino. Era graffiato e scheggiato. Le corde pendevano allentate e il banditore pensava non valesse la pena perdere tanto tempo con il vecchio violino, ma lo sollevò con un sorriso. “Che offerta mi fate, signori?”, gridò. “Partiamo da… 100 mila lire!”.
“Centocinque!”, disse una voce. Poi centodieci. “Centoquindici!”, disse un altro. Poi centoventi. “Centoventimila lire, uno; centoventimila lire, due; centoventimila lire…”.
Dal fondo della stanza un uomo dai capelli grigi avanzò e prese l’archetto. Con il fazzoletto spolverò il vecchio violino, tese le corde allentate, lo impugnò con energia e suonò una melodia pura e dolce come il canto degli angeli.
Quando la musica cessò, il banditore, con una voce calma e bassa, disse: “Quanto mi offrite per il vecchio violino?”. E lo sollevò insieme con l’archetto.
“Un milione, e chi dice due milioni? Due milioni! E chi dice tre milioni? Tre milioni, uno; tre milioni, due; tre milioni e tre, aggiudicato”, disse il banditore.
La gente applaudì, ma alcuni chiesero: “Che cosa ha cambiato il valore del violino?”. Pronta giunse la risposta: “Il tocco del maestro”.
Siamo vecchi strumenti impolverati e sfregiati. Ma siamo in grado di suonare sublimi armonie. Basta il tocco del Maestro.
da A volte basta un raggio di sole di Bruno Ferrero, [www.avventisti.it]
Il capitale
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Il mondo ha bisogno di noi
Una piccola nuvola avanzava lentamente nel cielo, su di essa due goccioline d’acqua litigavano furiosamente. “Ti dico che dovevamo scendere su quel prato!”, urlava Gocciolina. “Ah sì? Avremmo fatto proprio un bell’affare! – ribatteva nervosamente Goccetta che non accettava proposte altrui – Come minimo saremmo finite su una zolla di terra infangandoci tutte”. “Oh, poverina: sua maestà non vuole sporcarsi”, la prese in giro la compagna facendole un grande inchino. “Forse sua maestà preferirebbe cadere in una bottiglietta di profumo….”. “Sei sciocca e ignorante!”, urlò con tono indignato Goccetta voltandole le spalle. “Adesso parlerò solo con Goccina”. Così si rivolse all’altra compagna che, seduta sull’orlo di una nuvola, guardava il paesaggio. “E tu che ne pensi?”, le chiese incuriosita. Goccina rifletté e poi rispose: “Credo che ognuna di noi debba seguire le proprie aspirazioni. Senza dimenticare però ciò che siamo e il compito che dobbiamo assolvere: il mondo ha bisogno di noi”. “Giusto! – intervenne Goccetta che non aveva capito il vero significato di queste sagge parole – Ognuna pensi a se stessa”. Comunque, smisero di litigare. E tutte e tre presero a guardare in basso alla ricerca del posto preferito. La prima a lasciarsi scivolare dalla nuvola fu proprio Goccetta. Ci teneva tanto al suo aspetto che scelse una roccia in pieno deserto per farsi una bella abbronzatura! “Sono talmente bianca che un po’ di colore mi donerà senz’altro”, disse tutta soddisfatta. E, senza ritardare neppure un istante, eccola già sdraiata sulla roccia a crogiolarsi al sole. Ma, accipicchia come scottava! Fatto sta che, poco dopo, Goccetta cominciò a sudare e, all’improvviso, scomparve: era evaporata! Di lei non restava più nulla, neppure il segno sulla roccia. La seconda ad abbandonare la nuvola fu Gocciolina. Stavano sorvolando l’oceano quando, vedendo tutta quell’acqua, pensò: “Di certo non mi mancherà la compagnia. Mi divertirò un sacco!”. Salutò Goccina e se ne andò. Per settimane e settimane trascorse le sue giornate ridendo, ballando, scherzando insieme con le altre gocce che formavano il mare. “Ho scelto proprio bene. È una vera pacchia!”, si ripeteva felice. Ma un giorno, un’onda capricciosa l’afferrò con decisione e la mandò a ruzzolare sulla spiaggia. Gocciolina non fece neppure in tempo a capire ciò che le era successo, che la sabbia subito l’assorbì. E neanche di lei rimase nulla. Sulla nuvola, intanto, Goccina aspettava il momento opportuno per scendere sulla terra. Ormai aveva deciso: si sarebbe spinta ancora più a nord dove il vento freddo l’avrebbe trasformata in un fiocco di neve. “I bambini sono contenti quando vedono la neve”, pensava sorridendo. Ma ecco che vide, in un campo arso dal sole, una pianticella quasi appassita. Sull’intera regione non pioveva da più di otto mesi. “Poverina! Chissà quanta sete deve avere”, commentò tutta rattristata. E improvvisamente si lasciò cadere dalla nuvoletta. Fu tale lo slancio, che finì proprio addosso alla pianticella. “Che fresca carezza”, mormorò la piantina drizzandosi a fatica. “Chi sei?”, le chiese allora incuriosita. “Sono Goccina e sono venuta ad aiutarti”, rispose la goccia d’acqua scivolando fino a terra. In un attimo scomparve nel terreno. Cammina cammina, arrivò alle radici. Subito un fremito percorse l’intera pianticella e, addirittura, un fiore sbocciò profumando l’aria. Ancora oggi, quando un nuovo fiorellino spunta tra le foglie, si sente raccontare la storia di Goccina che era scesa dal cielo per salvare la pianticella.
Se voi foste una goccia, dove preferireste cadere? Tutti possiamo sperimentare la più grande fra le gioie, che è quella del donare e del donarsi. Come mai di Goccina qualcosa è rimasto? Anche il nostro impegno e il servizio per il nostro prossimo è un saggio investimento. Infatti, Gesù ci ha promesso che se sappiamo orientare bene le nostre scelte, pensando meno a noi stessi e impegnandoci invece in favore del più debole e del meno fortunato, questo diventa un investimento che rende, perché “avremo un tesoro nei cieli” (Mt 19:21) e “riceveremo cento volte tanto, ereditando la vita eterna” (Mt 19:29). “Cercate in cielo e in terra e non troverete nessuna verità rivelata con maggiore forza di quella dell’opera di assistenza nei confronti di chi ha bisogno di simpatia e aiuto” (Con Gesù sul monte delle beatitudini, pag.126). (Rid. e ad. da “Una storia dopo l’altra…” di R. Davico) [www.avventisti.it]
Il filo e l'aquilone
In una delle spiagge brasiliane, un bambino giocava con il suo aquilone. Era a forma di aeroplano e, aiutato dal vento, volava molto alto nel cielo. Un pappagallo, incuriosito da questo strano oggetto, lo raggiunse e, quando vide che era legato con un filo, provò compassione: “Poverino! – pensò – restare così legato alla terra, senza essere libero di volare dove vuole! Quel bambino che lo tiene legato deve essere proprio un egoista e senza amore”. Così, per aiutarlo nel ridargli la libertà, si avvicinò il più possibile e, rapido col suo becco tagliente, spezzò il filo che lo teneva legato. Ma subito l’aquilone parve impazzire. Infatti, sbattuto dal vento sbandava in tutte le direzioni, e la carta leggera di cui era fatto si incominciò a strappare in più punti. Infine, una sferzata di vento lo scaraventò a terra. Il pappagallo, sbalordito e tremante, atterrò vicino a lui e, rivolto verso il bambino, esclamò: “È terribile! Che cosa è successo? Io pensavo di liberarlo!”. Il bambino, mentre cercava di vedere se il suo aquilone poteva essere riparato, con voce calma e decisa, rispose: “Vedi, succederebbe la stessa cosa anche a te, se qualcuno tagliasse quel filo sottile che ti tiene legato al cielo, come legato a me era l’aquilone. Il suo, non era un legame di schiavitù o di morte, ma di libertà e di vita!”.
Il pensiero e il gesto di questo pappagallo rispecchiano in qualche modo la nostra civiltà, che pensa che le regole e il limite morale siano una restrizione alla propria libertà.
“Fin dove può arrivare il mio desiderio, là io andrò”. Così, uno scrittore espresse questa illusione di libertà. E, purtroppo, sono molti coloro che si comportano allo stesso modo, convinti di esaltare la loro libertà. Quando, invece, per essere davvero liberi è necessario porre dei confini morali alle proprie azioni, perché una libertà senza limiti non può che creare conflitti, dolore e confusione. Forse, inizialmente, la regola può sembrare meno simpatica e meno gradita, ma a lungo andare si rivela vincente, ed è quella che può dare un contributo positivo alla nostra società. Restano, quindi, sempre valide le parole di Gesù che disse: “La verità vi farà liberi” (Gv 8:32). Questa è la libertà che ci permette di respirare e volare verso l’alto. Perciò, un caro consiglio: non rompete mai il vostro filo! [www.avventisti.it]
Una piccola nuvola avanzava lentamente nel cielo, su di essa due goccioline d’acqua litigavano furiosamente. “Ti dico che dovevamo scendere su quel prato!”, urlava Gocciolina. “Ah sì? Avremmo fatto proprio un bell’affare! – ribatteva nervosamente Goccetta che non accettava proposte altrui – Come minimo saremmo finite su una zolla di terra infangandoci tutte”. “Oh, poverina: sua maestà non vuole sporcarsi”, la prese in giro la compagna facendole un grande inchino. “Forse sua maestà preferirebbe cadere in una bottiglietta di profumo….”. “Sei sciocca e ignorante!”, urlò con tono indignato Goccetta voltandole le spalle. “Adesso parlerò solo con Goccina”. Così si rivolse all’altra compagna che, seduta sull’orlo di una nuvola, guardava il paesaggio. “E tu che ne pensi?”, le chiese incuriosita. Goccina rifletté e poi rispose: “Credo che ognuna di noi debba seguire le proprie aspirazioni. Senza dimenticare però ciò che siamo e il compito che dobbiamo assolvere: il mondo ha bisogno di noi”. “Giusto! – intervenne Goccetta che non aveva capito il vero significato di queste sagge parole – Ognuna pensi a se stessa”. Comunque, smisero di litigare. E tutte e tre presero a guardare in basso alla ricerca del posto preferito. La prima a lasciarsi scivolare dalla nuvola fu proprio Goccetta. Ci teneva tanto al suo aspetto che scelse una roccia in pieno deserto per farsi una bella abbronzatura! “Sono talmente bianca che un po’ di colore mi donerà senz’altro”, disse tutta soddisfatta. E, senza ritardare neppure un istante, eccola già sdraiata sulla roccia a crogiolarsi al sole. Ma, accipicchia come scottava! Fatto sta che, poco dopo, Goccetta cominciò a sudare e, all’improvviso, scomparve: era evaporata! Di lei non restava più nulla, neppure il segno sulla roccia. La seconda ad abbandonare la nuvola fu Gocciolina. Stavano sorvolando l’oceano quando, vedendo tutta quell’acqua, pensò: “Di certo non mi mancherà la compagnia. Mi divertirò un sacco!”. Salutò Goccina e se ne andò. Per settimane e settimane trascorse le sue giornate ridendo, ballando, scherzando insieme con le altre gocce che formavano il mare. “Ho scelto proprio bene. È una vera pacchia!”, si ripeteva felice. Ma un giorno, un’onda capricciosa l’afferrò con decisione e la mandò a ruzzolare sulla spiaggia. Gocciolina non fece neppure in tempo a capire ciò che le era successo, che la sabbia subito l’assorbì. E neanche di lei rimase nulla. Sulla nuvola, intanto, Goccina aspettava il momento opportuno per scendere sulla terra. Ormai aveva deciso: si sarebbe spinta ancora più a nord dove il vento freddo l’avrebbe trasformata in un fiocco di neve. “I bambini sono contenti quando vedono la neve”, pensava sorridendo. Ma ecco che vide, in un campo arso dal sole, una pianticella quasi appassita. Sull’intera regione non pioveva da più di otto mesi. “Poverina! Chissà quanta sete deve avere”, commentò tutta rattristata. E improvvisamente si lasciò cadere dalla nuvoletta. Fu tale lo slancio, che finì proprio addosso alla pianticella. “Che fresca carezza”, mormorò la piantina drizzandosi a fatica. “Chi sei?”, le chiese allora incuriosita. “Sono Goccina e sono venuta ad aiutarti”, rispose la goccia d’acqua scivolando fino a terra. In un attimo scomparve nel terreno. Cammina cammina, arrivò alle radici. Subito un fremito percorse l’intera pianticella e, addirittura, un fiore sbocciò profumando l’aria. Ancora oggi, quando un nuovo fiorellino spunta tra le foglie, si sente raccontare la storia di Goccina che era scesa dal cielo per salvare la pianticella.
Se voi foste una goccia, dove preferireste cadere? Tutti possiamo sperimentare la più grande fra le gioie, che è quella del donare e del donarsi. Come mai di Goccina qualcosa è rimasto? Anche il nostro impegno e il servizio per il nostro prossimo è un saggio investimento. Infatti, Gesù ci ha promesso che se sappiamo orientare bene le nostre scelte, pensando meno a noi stessi e impegnandoci invece in favore del più debole e del meno fortunato, questo diventa un investimento che rende, perché “avremo un tesoro nei cieli” (Mt 19:21) e “riceveremo cento volte tanto, ereditando la vita eterna” (Mt 19:29). “Cercate in cielo e in terra e non troverete nessuna verità rivelata con maggiore forza di quella dell’opera di assistenza nei confronti di chi ha bisogno di simpatia e aiuto” (Con Gesù sul monte delle beatitudini, pag.126). (Rid. e ad. da “Una storia dopo l’altra…” di R. Davico) [www.avventisti.it]
Il filo e l'aquilone
In una delle spiagge brasiliane, un bambino giocava con il suo aquilone. Era a forma di aeroplano e, aiutato dal vento, volava molto alto nel cielo. Un pappagallo, incuriosito da questo strano oggetto, lo raggiunse e, quando vide che era legato con un filo, provò compassione: “Poverino! – pensò – restare così legato alla terra, senza essere libero di volare dove vuole! Quel bambino che lo tiene legato deve essere proprio un egoista e senza amore”. Così, per aiutarlo nel ridargli la libertà, si avvicinò il più possibile e, rapido col suo becco tagliente, spezzò il filo che lo teneva legato. Ma subito l’aquilone parve impazzire. Infatti, sbattuto dal vento sbandava in tutte le direzioni, e la carta leggera di cui era fatto si incominciò a strappare in più punti. Infine, una sferzata di vento lo scaraventò a terra. Il pappagallo, sbalordito e tremante, atterrò vicino a lui e, rivolto verso il bambino, esclamò: “È terribile! Che cosa è successo? Io pensavo di liberarlo!”. Il bambino, mentre cercava di vedere se il suo aquilone poteva essere riparato, con voce calma e decisa, rispose: “Vedi, succederebbe la stessa cosa anche a te, se qualcuno tagliasse quel filo sottile che ti tiene legato al cielo, come legato a me era l’aquilone. Il suo, non era un legame di schiavitù o di morte, ma di libertà e di vita!”.
Il pensiero e il gesto di questo pappagallo rispecchiano in qualche modo la nostra civiltà, che pensa che le regole e il limite morale siano una restrizione alla propria libertà.
“Fin dove può arrivare il mio desiderio, là io andrò”. Così, uno scrittore espresse questa illusione di libertà. E, purtroppo, sono molti coloro che si comportano allo stesso modo, convinti di esaltare la loro libertà. Quando, invece, per essere davvero liberi è necessario porre dei confini morali alle proprie azioni, perché una libertà senza limiti non può che creare conflitti, dolore e confusione. Forse, inizialmente, la regola può sembrare meno simpatica e meno gradita, ma a lungo andare si rivela vincente, ed è quella che può dare un contributo positivo alla nostra società. Restano, quindi, sempre valide le parole di Gesù che disse: “La verità vi farà liberi” (Gv 8:32). Questa è la libertà che ci permette di respirare e volare verso l’alto. Perciò, un caro consiglio: non rompete mai il vostro filo! [www.avventisti.it]
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Il grande concorso
Un giorno lo Scià di Persia bandì un concorso fra tutti gli artisti del suo vasto impero. Si trattava di ritrarre il volto del re. Così, nel giorno stabilito, giunsero gli indù con i meravigliosi colori di cui solo loro conoscevano i vari segreti; poi giunsero gli armeni, che portarono una creta speciale che solo loro avevano; quindi arrivarono gli egiziani, muniti di scalpelli e ceselli così particolari come non si erano mai visti e portarono anche bianchissimi blocchi di marmo. Infine, si presentarono i greci, che avevano con sé soltanto un sacchetto di polvere impalpabile. Per settimane e settimane rimasero rinchiusi, ognuno nella sua grande sala del palazzo reale. Nel giorno in cui tutti dichiararono ormai di aver terminato l’opera, venne il re che ammirò i meravigliosi dipinti degli indù, i busti modellati nella creta dagli artisti armeni e le statue degli egiziani. Poi, infine, entrò nella sala dei greci. Costoro sembravano non aver fatto niente: con la loro polvere minuta si erano accontentati di strofinare e levigare più volte le belle pareti di marmo della sala in modo tale che, quando il re si fece avanti, poté contemplare il suo volto perfettamente riflesso dappertutto. Sapete chi vinse il concorso? I greci, naturalmente. Questi, avevano capito che solo il re, il vero re, poteva rappresentare se stesso. Certo, anche gli egiziani, gli armeni e gli indù avevano fatto un buon lavoro nel ritrarre il volto del re. Però, i greci avevano capito una verità importante e fondamentale che troviamo nella Bibbia e che anche noi siamo chiamati a comprendere. Tanti uomini hanno cercato di rappresentare Dio su questa terra con il loro nobile carattere. Ma, ogni virtù e ogni raggio di luce, che questi uomini hanno saputo manifestare, non erano altro che il riflesso della sua grandezza e perfezione. Perciò, un solo essere nell’intero universo avrebbe potuto rappresentare, in tutta la sua pienezza, il vero Dio: il nostro caro Gesù. Infatti, solo Gesù ha potuto dire: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14:9). Volete sapere perché? Perché “Egli è l’immagine del Dio invisibile… lo splendore della sua gloria e l’impronta della sua essenza” (Col 1:15; Eb 1:3). Sapete qual è la più grande prova che attesta l’origine divina di Gesù? No! Non sono i suoi grandi miracoli, come alcuni pensano, ma è la rivelazione del carattere di Dio nella sua vita. In ogni suo insegnamento, in ogni suo atto d’amore e in qualsiasi aspetto della vita di Gesù, noi possiamo scorgere il nostro Dio. “Su tutte le cose, in terra e in cielo, egli ha scritto il messaggio dell’amore del Padre” (La Speranza dell’uomo, pag. 9). Gesù venne sulla terra per mostrarci con il suo esempio che, se lo vogliamo, anche noi possiamo essere “trasformati nella sua stessa immagine” (2 Cor 3:18). Che cosa straordinaria! Essere mansueti, compassionevoli, affettuosi, umili come lui… e poi sentirsi dire dal Padre suo e nostro: “Questo è il mio diletto figlio, nel quale mi sono compiaciuto” (Mt 3:17). E allora, anche se qualcuno affermò giustamente che noi “non dobbiamo giudicare Dio dalla balbuzie degli uomini”, è pure vero, però, che non dobbiamo mai scoraggiarci e smettere di rappresentarlo finendo addirittura con il non parlare più di lui. (Ad. da “Ti racconto Dio” di P. Pellegrino) [www.avventisti.it]
Processo a un grillo
Nella casa di un fornaio di nome Pandolfo abitava un grillo. Pandolfo raccontava a tutti che il grillo era il suo talismano. Infatti, i suoi affari andavano di bene in meglio, mentre invece a Padalino, negoziante di calze e suo vicino, tutto andava male. Per questo fatto, costui pensò di rubare a Pandolfo il grillo portafortuna, ma non sapeva come fare. Finalmente, un giorno vide l’animaletto camminare sulla soglia del negozio, alla portata della sua mano. Si assicurò che nessuno lo vedesse e…zaff, lo afferrò, lo portò nel suo negozio e lo rinchiuse. Quella notte Padalino sognò di vendere finalmente centinaia e centinaia di calze e calzini. Il giorno dopo, entrò in negozio un cliente. Il negoziante si mise subito in moto per servirlo, ma quando andò ad aprire con cura la scatola delle sue calze più pregiate, notò che erano tutte bucherellate. Le esaminò tutte, una dopo l’altra e vide che c’erano buchi dappertutto. “Certo – pensò con rabbia – il fornaio è penetrato in qualche modo qui, e si è vendicato perché gli ho rubato il suo grillo. A proposito, dov’è?”. Subito andò a spiare davanti al forno e sentì il cri cri del grillo, che già era ritornato a casa da solo. “Avevo ragione!”, pensò. “Pandolfo si è ripreso il grillo e mi ha bucato le calze. Adesso andrò a denunciarlo e gli farò pagare i danni!”. Così, il fornaio fu chiamato in tribunale. Egli arrivò con i suoi corti calzoni infarinati che lasciavano scorgere due grosse calze grigie di lana, piene di buchi. Il giudice lo guardò meravigliato e gli domandò: “Come mai avete tutti quei buchi nelle calze?” “È il mio grillo che le riduce così; non ne posso salvare un paio. Ma è il mio portafortuna, e poi canta così bene che non potrei proprio vivere senza di lui!”. Il giudice rise e, rivolto al negoziante di calze, disse: “Faremo il processo al grillo. Avete detto di averlo ospitato la notte del guaio. Non sapevate che i grilli mangiano di tutto, anche la carta e la stoffa?”. Padalino, tutto confuso, rispose: “Ma…io, signor giudice, sapevo solo che i grilli portano fortuna”. E il giudice: “Non è un animaletto, un ciondolo o un qualsiasi altro oggetto che può portare fortuna negli affari e nella vita, ma l’essere onesti e con un buon carattere può far andare meglio ogni cosa. Andatevene ora, e se non siete soddisfatto, portatemi il grillo per il processo”. Sono molte le persone che, per riuscire negli affari o per vivere una vita piena di successo, si affidano a un oggetto come loro amuleto. Pensate che, solo di corni, una fabbrica del nord Italia ne produce oltre ottocentomila l’anno divisi in più di settanta modelli. Anche voi cercate il vostro talismano? Volete avere successo nello studio o in qualcos’altro? Non cercatelo come fece il fornaio, il negoziante di calze o come fanno tanti altri, ma come fece Giuseppe che, confidando nel suo Creatore, da schiavo diventò viceré d’Egitto, e di lui sta scritto che: “Il Signore gli faceva prosperare nelle mani tutto quello che intraprendeva” (Gn 39:3). E quando i vostri amici vi propongono di vedere i loro portafortuna, attirate con dolcezza i loro sguardi verso il cielo e ripetete le parole che un giorno Nehemia disse a tre persone che lo volevano confondere: “L’Iddio del cielo è quello che ci darà un buon successo» (Ne 2:20). (Ad. da “Usignolo” – Ed. F.lli Fabbri) [www.avventisti.it]
Un giorno lo Scià di Persia bandì un concorso fra tutti gli artisti del suo vasto impero. Si trattava di ritrarre il volto del re. Così, nel giorno stabilito, giunsero gli indù con i meravigliosi colori di cui solo loro conoscevano i vari segreti; poi giunsero gli armeni, che portarono una creta speciale che solo loro avevano; quindi arrivarono gli egiziani, muniti di scalpelli e ceselli così particolari come non si erano mai visti e portarono anche bianchissimi blocchi di marmo. Infine, si presentarono i greci, che avevano con sé soltanto un sacchetto di polvere impalpabile. Per settimane e settimane rimasero rinchiusi, ognuno nella sua grande sala del palazzo reale. Nel giorno in cui tutti dichiararono ormai di aver terminato l’opera, venne il re che ammirò i meravigliosi dipinti degli indù, i busti modellati nella creta dagli artisti armeni e le statue degli egiziani. Poi, infine, entrò nella sala dei greci. Costoro sembravano non aver fatto niente: con la loro polvere minuta si erano accontentati di strofinare e levigare più volte le belle pareti di marmo della sala in modo tale che, quando il re si fece avanti, poté contemplare il suo volto perfettamente riflesso dappertutto. Sapete chi vinse il concorso? I greci, naturalmente. Questi, avevano capito che solo il re, il vero re, poteva rappresentare se stesso. Certo, anche gli egiziani, gli armeni e gli indù avevano fatto un buon lavoro nel ritrarre il volto del re. Però, i greci avevano capito una verità importante e fondamentale che troviamo nella Bibbia e che anche noi siamo chiamati a comprendere. Tanti uomini hanno cercato di rappresentare Dio su questa terra con il loro nobile carattere. Ma, ogni virtù e ogni raggio di luce, che questi uomini hanno saputo manifestare, non erano altro che il riflesso della sua grandezza e perfezione. Perciò, un solo essere nell’intero universo avrebbe potuto rappresentare, in tutta la sua pienezza, il vero Dio: il nostro caro Gesù. Infatti, solo Gesù ha potuto dire: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14:9). Volete sapere perché? Perché “Egli è l’immagine del Dio invisibile… lo splendore della sua gloria e l’impronta della sua essenza” (Col 1:15; Eb 1:3). Sapete qual è la più grande prova che attesta l’origine divina di Gesù? No! Non sono i suoi grandi miracoli, come alcuni pensano, ma è la rivelazione del carattere di Dio nella sua vita. In ogni suo insegnamento, in ogni suo atto d’amore e in qualsiasi aspetto della vita di Gesù, noi possiamo scorgere il nostro Dio. “Su tutte le cose, in terra e in cielo, egli ha scritto il messaggio dell’amore del Padre” (La Speranza dell’uomo, pag. 9). Gesù venne sulla terra per mostrarci con il suo esempio che, se lo vogliamo, anche noi possiamo essere “trasformati nella sua stessa immagine” (2 Cor 3:18). Che cosa straordinaria! Essere mansueti, compassionevoli, affettuosi, umili come lui… e poi sentirsi dire dal Padre suo e nostro: “Questo è il mio diletto figlio, nel quale mi sono compiaciuto” (Mt 3:17). E allora, anche se qualcuno affermò giustamente che noi “non dobbiamo giudicare Dio dalla balbuzie degli uomini”, è pure vero, però, che non dobbiamo mai scoraggiarci e smettere di rappresentarlo finendo addirittura con il non parlare più di lui. (Ad. da “Ti racconto Dio” di P. Pellegrino) [www.avventisti.it]
Processo a un grillo
Nella casa di un fornaio di nome Pandolfo abitava un grillo. Pandolfo raccontava a tutti che il grillo era il suo talismano. Infatti, i suoi affari andavano di bene in meglio, mentre invece a Padalino, negoziante di calze e suo vicino, tutto andava male. Per questo fatto, costui pensò di rubare a Pandolfo il grillo portafortuna, ma non sapeva come fare. Finalmente, un giorno vide l’animaletto camminare sulla soglia del negozio, alla portata della sua mano. Si assicurò che nessuno lo vedesse e…zaff, lo afferrò, lo portò nel suo negozio e lo rinchiuse. Quella notte Padalino sognò di vendere finalmente centinaia e centinaia di calze e calzini. Il giorno dopo, entrò in negozio un cliente. Il negoziante si mise subito in moto per servirlo, ma quando andò ad aprire con cura la scatola delle sue calze più pregiate, notò che erano tutte bucherellate. Le esaminò tutte, una dopo l’altra e vide che c’erano buchi dappertutto. “Certo – pensò con rabbia – il fornaio è penetrato in qualche modo qui, e si è vendicato perché gli ho rubato il suo grillo. A proposito, dov’è?”. Subito andò a spiare davanti al forno e sentì il cri cri del grillo, che già era ritornato a casa da solo. “Avevo ragione!”, pensò. “Pandolfo si è ripreso il grillo e mi ha bucato le calze. Adesso andrò a denunciarlo e gli farò pagare i danni!”. Così, il fornaio fu chiamato in tribunale. Egli arrivò con i suoi corti calzoni infarinati che lasciavano scorgere due grosse calze grigie di lana, piene di buchi. Il giudice lo guardò meravigliato e gli domandò: “Come mai avete tutti quei buchi nelle calze?” “È il mio grillo che le riduce così; non ne posso salvare un paio. Ma è il mio portafortuna, e poi canta così bene che non potrei proprio vivere senza di lui!”. Il giudice rise e, rivolto al negoziante di calze, disse: “Faremo il processo al grillo. Avete detto di averlo ospitato la notte del guaio. Non sapevate che i grilli mangiano di tutto, anche la carta e la stoffa?”. Padalino, tutto confuso, rispose: “Ma…io, signor giudice, sapevo solo che i grilli portano fortuna”. E il giudice: “Non è un animaletto, un ciondolo o un qualsiasi altro oggetto che può portare fortuna negli affari e nella vita, ma l’essere onesti e con un buon carattere può far andare meglio ogni cosa. Andatevene ora, e se non siete soddisfatto, portatemi il grillo per il processo”. Sono molte le persone che, per riuscire negli affari o per vivere una vita piena di successo, si affidano a un oggetto come loro amuleto. Pensate che, solo di corni, una fabbrica del nord Italia ne produce oltre ottocentomila l’anno divisi in più di settanta modelli. Anche voi cercate il vostro talismano? Volete avere successo nello studio o in qualcos’altro? Non cercatelo come fece il fornaio, il negoziante di calze o come fanno tanti altri, ma come fece Giuseppe che, confidando nel suo Creatore, da schiavo diventò viceré d’Egitto, e di lui sta scritto che: “Il Signore gli faceva prosperare nelle mani tutto quello che intraprendeva” (Gn 39:3). E quando i vostri amici vi propongono di vedere i loro portafortuna, attirate con dolcezza i loro sguardi verso il cielo e ripetete le parole che un giorno Nehemia disse a tre persone che lo volevano confondere: “L’Iddio del cielo è quello che ci darà un buon successo» (Ne 2:20). (Ad. da “Usignolo” – Ed. F.lli Fabbri) [www.avventisti.it]
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L' uomo brontolone
Era un uomo povero e semplice. La sera, dopo una giornata di duro lavoro, rientrava in casa spossato e pieno di malumore. Guardava con rancore sia la gente che passava in belle automobili sia quelli che erano seduti ai tavolini dei bar. “Quelli sì che stanno bene”, brontolava sempre l’uomo pigiato nel pullman pieno di vari odori sgradevoli. “Non sanno che cosa vuol dire tribolare, sacrificarsi… Tutto rose e fiori, per loro. Avessero la mia croce da portare!”. Una sera tornò a casa più imbronciato che mai. Il Signore, che aveva ascoltato sempre con molta pazienza i suoi lamenti, quella sera gli disse queste parole: “Vieni con me. Ti darò la possibilità di fare una scelta”. L’uomo si trovò all’improvviso dentro un’enorme grotta. Questa era piena di croci: piccole e grandi, semplici o fatte d’oro, lisce o rozze. “Vedi? Sono le croci degli uomini. Lascia pure la tua e scegline un’altra di tuo piacimento”, gli propose con dolcezza il Signore. L’uomo, contento, buttò la sua croce in un angolo e, fregandosi le mani, cominciò a scegliere. Provò una croce che gli parve subito leggera, ma poi la trovò lunga e ingombrante. Si mise al collo una piccola croce di ferro che era stata di un ministro di culto, ma subito, riflettendo, s’accorse che era incredibilmente piena di responsabilità, di sacrificio e di rinuncia. Un’altra, graziosa in apparenza, appena fu sulle sue spalle cominciò a pungere come se fosse piena di chiodi. Afferrò, allora, una croce d’argento che era stata di grandi uomini di successo, ma si sentì invadere da una straziante sensazione di isolamento, di fredda solitudine. La posò subito. Per ore provò e riprovò ma, per lui, ogni croce aveva qualche difetto. Finalmente, in un angolo semibuio, scovò una piccola croce, un po’ logorata dall’uso. Non era né troppo pesante né troppo ingombrante. Sembrava fatta apposta per lui. L’uomo se la mise sulle spalle con aria soddisfatta, ed esclamò: “Ecco, finalmente quella giusta!”. E, presala, uscì dalla grotta col viso gioioso. Il Signore gli rivolse uno sguardo affettuoso, proprio come una carezza. E in quell’istante l’uomo si accorse che aveva ripreso la sua vecchia croce: quella che aveva buttato via entrando nella grotta e che portava, protestando, da tutta una vita.
Forse anche noi, come l’uomo della parabola, nelle nostre riflessioni, nel confrontarci con gli altri, a volte ci siamo abbandonati alla tentazione della lamentela pura e semplice:“Il mio vicino è ricco ed è sempre in giro per il mondo”; “Gli amici si possono permettere i vestiti firmati, beati loro!”; “Il mio amico ha il computer più avanzato!”; “I compagni di scuola possono andare in gita e io no!”.. È pericoloso abbandonarsi al mugugno continuo, alla scontentezza giornaliera, perché alla fine rischiamo di non riuscire più ad affrontare i problemi della vita. La Bibbia ci dice: “Siate contenti delle cose che avete” (Eb 13:5). E se anche noi ci fossimo trovati in carcere dopo aver ricevuto tante vergate, come Paolo e Sila, come avremmo reagito? Quante lamentele avrebbero sentito gli altri carcerati? Invece, è scritto che essi “cantavano inni a Dio” (At 16:23-25). (Ad. da “Piccole storie per l’anima” di Bruno Ferrero). [www.avventisti.it]
Il chicco di grano e la formica
Un chicco di grano, rimasto nel campo dopo la mietitura, aspettava la pioggia per tornare a nascondersi sotto le zolle. Lo vide una formica, e, caricatoselo addosso, si avviò faticosamente verso il suo formicaio. “Perché ti affatichi a portarmi via? Lasciami nel campo!”, disse il chicco di grano. Gli rispose la formica: “Se ciascuna di noi non porta un po’ di cibo nella dispensa, non avremo abbastanza provviste per affrontare l’inverno”. “Ma io non sono fatto soltanto per essere mangiato”, replicò il chicco. “Sono un seme pieno di vita, e il mio destino è quello di far nascere una pianta. Facciamo un patto…”. Contenta di riposarsi un po’, la formica depose il chicco e gli chiese: “Quale patto?”. “Se mi lasci qui nel mio campo, rinunciando a portarmi a casa tua, io mi impegno a restituirti fra un anno cento chicchi uguali a me”. “Cento chicchi in cambio di uno solo!”, pensò la formica. “Ma che buon affare! E come farai?”, chiese al chicco di grano. “Questo è un mistero”, rispose il chicco. “È il mistero della vita. Ora, scava una piccola fossa; seppelliscimi lì dentro, e poi torna qui fra un anno e vedrai”. La formica gli diede ascolto; così scavò una piccola buca e vi depose il seme dentro. L’anno dopo, puntualmente, tornò a vedere se, quanto promesso, si fosse avverato. Sì, il chicco di grano aveva saputo mantenere il patto.
Sul chicco di grano che avrebbe fruttato altri cento chicchi, ci avrei scommesso, ma che la formica avrebbe pazientato un anno per portare il cibo nei suoi depositi, un po’ meno. Forse, questo mio pessimismo è dovuto dall’ambiente in cui vivo, una società che mal sopporta la normalità della natura con i suoi tempi e momenti, ma ci porta ad avere, con la sua frenesia di voler ottenere “tutto e subito”, esiti spesso catastrofici. In verità, l’attesa è il percorso naturale della natura, dove, per raccogliere i prodotti della terra, bisogna attendere con pazienza il fluire delle stagioni. “Prima il seme… poi lo stelo, quindi la spiga e… infine, si mette mano alla falce” (Mc 4:26-29). Ecco allora, che se vogliamo costruire qualcosa di significativo e duraturo, dobbiamo cercare di vivere la nostra vita nel fare un passo per volta, affidandoci alla pazienza che segue, da sempre, i ritmi e i tempi della vita, generando serenità e fiducia. “Ciò che manca ai giovani per riuscire nella vita è quell’attitudine così banale ma così fondamentale che porta al successo: la pazienza” (R. Guardini).
A proposito, ma siete consapevoli, come lo era il chicco di grano, del tesoro che Gesù ha nascosto nella vostra vita? E che anche voi siete “un seme pieno di vita” destinato a portare molto frutto? (Gv 15:5). Sì, se diamo la possibilità a Gesù di dimorare nei nostri cuori, egli ci aiuterà a sviluppare tutte le nostre facoltà, al punto di trasformare tutto l’essere nostro. (Ad. da “Favole” di L. Da Vinci) [www.avventisti.it]
Era un uomo povero e semplice. La sera, dopo una giornata di duro lavoro, rientrava in casa spossato e pieno di malumore. Guardava con rancore sia la gente che passava in belle automobili sia quelli che erano seduti ai tavolini dei bar. “Quelli sì che stanno bene”, brontolava sempre l’uomo pigiato nel pullman pieno di vari odori sgradevoli. “Non sanno che cosa vuol dire tribolare, sacrificarsi… Tutto rose e fiori, per loro. Avessero la mia croce da portare!”. Una sera tornò a casa più imbronciato che mai. Il Signore, che aveva ascoltato sempre con molta pazienza i suoi lamenti, quella sera gli disse queste parole: “Vieni con me. Ti darò la possibilità di fare una scelta”. L’uomo si trovò all’improvviso dentro un’enorme grotta. Questa era piena di croci: piccole e grandi, semplici o fatte d’oro, lisce o rozze. “Vedi? Sono le croci degli uomini. Lascia pure la tua e scegline un’altra di tuo piacimento”, gli propose con dolcezza il Signore. L’uomo, contento, buttò la sua croce in un angolo e, fregandosi le mani, cominciò a scegliere. Provò una croce che gli parve subito leggera, ma poi la trovò lunga e ingombrante. Si mise al collo una piccola croce di ferro che era stata di un ministro di culto, ma subito, riflettendo, s’accorse che era incredibilmente piena di responsabilità, di sacrificio e di rinuncia. Un’altra, graziosa in apparenza, appena fu sulle sue spalle cominciò a pungere come se fosse piena di chiodi. Afferrò, allora, una croce d’argento che era stata di grandi uomini di successo, ma si sentì invadere da una straziante sensazione di isolamento, di fredda solitudine. La posò subito. Per ore provò e riprovò ma, per lui, ogni croce aveva qualche difetto. Finalmente, in un angolo semibuio, scovò una piccola croce, un po’ logorata dall’uso. Non era né troppo pesante né troppo ingombrante. Sembrava fatta apposta per lui. L’uomo se la mise sulle spalle con aria soddisfatta, ed esclamò: “Ecco, finalmente quella giusta!”. E, presala, uscì dalla grotta col viso gioioso. Il Signore gli rivolse uno sguardo affettuoso, proprio come una carezza. E in quell’istante l’uomo si accorse che aveva ripreso la sua vecchia croce: quella che aveva buttato via entrando nella grotta e che portava, protestando, da tutta una vita.
Forse anche noi, come l’uomo della parabola, nelle nostre riflessioni, nel confrontarci con gli altri, a volte ci siamo abbandonati alla tentazione della lamentela pura e semplice:“Il mio vicino è ricco ed è sempre in giro per il mondo”; “Gli amici si possono permettere i vestiti firmati, beati loro!”; “Il mio amico ha il computer più avanzato!”; “I compagni di scuola possono andare in gita e io no!”.. È pericoloso abbandonarsi al mugugno continuo, alla scontentezza giornaliera, perché alla fine rischiamo di non riuscire più ad affrontare i problemi della vita. La Bibbia ci dice: “Siate contenti delle cose che avete” (Eb 13:5). E se anche noi ci fossimo trovati in carcere dopo aver ricevuto tante vergate, come Paolo e Sila, come avremmo reagito? Quante lamentele avrebbero sentito gli altri carcerati? Invece, è scritto che essi “cantavano inni a Dio” (At 16:23-25). (Ad. da “Piccole storie per l’anima” di Bruno Ferrero). [www.avventisti.it]
Il chicco di grano e la formica
Un chicco di grano, rimasto nel campo dopo la mietitura, aspettava la pioggia per tornare a nascondersi sotto le zolle. Lo vide una formica, e, caricatoselo addosso, si avviò faticosamente verso il suo formicaio. “Perché ti affatichi a portarmi via? Lasciami nel campo!”, disse il chicco di grano. Gli rispose la formica: “Se ciascuna di noi non porta un po’ di cibo nella dispensa, non avremo abbastanza provviste per affrontare l’inverno”. “Ma io non sono fatto soltanto per essere mangiato”, replicò il chicco. “Sono un seme pieno di vita, e il mio destino è quello di far nascere una pianta. Facciamo un patto…”. Contenta di riposarsi un po’, la formica depose il chicco e gli chiese: “Quale patto?”. “Se mi lasci qui nel mio campo, rinunciando a portarmi a casa tua, io mi impegno a restituirti fra un anno cento chicchi uguali a me”. “Cento chicchi in cambio di uno solo!”, pensò la formica. “Ma che buon affare! E come farai?”, chiese al chicco di grano. “Questo è un mistero”, rispose il chicco. “È il mistero della vita. Ora, scava una piccola fossa; seppelliscimi lì dentro, e poi torna qui fra un anno e vedrai”. La formica gli diede ascolto; così scavò una piccola buca e vi depose il seme dentro. L’anno dopo, puntualmente, tornò a vedere se, quanto promesso, si fosse avverato. Sì, il chicco di grano aveva saputo mantenere il patto.
Sul chicco di grano che avrebbe fruttato altri cento chicchi, ci avrei scommesso, ma che la formica avrebbe pazientato un anno per portare il cibo nei suoi depositi, un po’ meno. Forse, questo mio pessimismo è dovuto dall’ambiente in cui vivo, una società che mal sopporta la normalità della natura con i suoi tempi e momenti, ma ci porta ad avere, con la sua frenesia di voler ottenere “tutto e subito”, esiti spesso catastrofici. In verità, l’attesa è il percorso naturale della natura, dove, per raccogliere i prodotti della terra, bisogna attendere con pazienza il fluire delle stagioni. “Prima il seme… poi lo stelo, quindi la spiga e… infine, si mette mano alla falce” (Mc 4:26-29). Ecco allora, che se vogliamo costruire qualcosa di significativo e duraturo, dobbiamo cercare di vivere la nostra vita nel fare un passo per volta, affidandoci alla pazienza che segue, da sempre, i ritmi e i tempi della vita, generando serenità e fiducia. “Ciò che manca ai giovani per riuscire nella vita è quell’attitudine così banale ma così fondamentale che porta al successo: la pazienza” (R. Guardini).
A proposito, ma siete consapevoli, come lo era il chicco di grano, del tesoro che Gesù ha nascosto nella vostra vita? E che anche voi siete “un seme pieno di vita” destinato a portare molto frutto? (Gv 15:5). Sì, se diamo la possibilità a Gesù di dimorare nei nostri cuori, egli ci aiuterà a sviluppare tutte le nostre facoltà, al punto di trasformare tutto l’essere nostro. (Ad. da “Favole” di L. Da Vinci) [www.avventisti.it]
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Due veri amici
Frank e Ted erano due amici inseparabili, sempre insieme fin dalle scuole elementari. Frank era il più grande e aveva vent’anni, mentre Ted ne aveva diciannove. Un giorno, decisero di arruolarsi nell’esercito. Partendo, promisero a se stessi e ai loro genitori che avrebbero avuto cura l’uno dell’altro. Furono così fortunati che finirono nello stesso battaglione. Quel battaglione però venne mandato in guerra. Per diverso tempo Frank e Ted rimasero negli accampamenti protetti dall’aviazione. Poi, una sera, venne l’ordine di avanzare in territorio nemico. I soldati avanzarono per tutta la notte, sotto la minaccia di un fuoco infernale. Al mattino, il battaglione si radunò in un villaggio. Ma Ted non c’era. Frank lo cercò dappertutto, tra i feriti e tra i morti, ma non riuscì a trovarlo. Finalmente lo trovò nell’elenco dei dispersi. Così, si presentò subito dal suo comandante e disse: “Chiedo il permesso di andare a riprendere il mio amico Ted”. “È troppo pericoloso – rispose il comandante – insieme con il tuo amico ho già perso diversi uomini. Rischierei di perdere anche te, perché là fuori stanno sparando”. Ma Frank decise di partire ugualmente e, dopo un po’ di tempo, trovò Ted ferito mortalmente. Se lo caricò sulle spalle e si incamminò per ritornare all’accampamento. Durante il viaggio, però, una scheggia lo colpì mortalmente. Ma riuscì ugualmente a trascinarsi fino al campo. Quando arrivò i soldati chiamarono subito il comandate che, vedendo Frank in quelle condizioni, gli gridò: “Ti avevo detto di non andare? Valeva la pena morire per salvare un morto?”. “Sì – sussurrò Frank – perché prima di morire, Ted mi ha detto: Frank, sapevo che saresti venuto”. L’amicizia ha sempre affascinato l’umanità per la sua gratuità, per la sua capacità di dono, per il conforto e l’intimità che riesce a creare. Ecco perché si dice: “Chi trova un amico, trova un tesoro”. E un verso di una canzone di un famoso cantautore italiano recita: “Andrei certamente a piedi fino a Bologna per un amico in più”. Conservare, però, questo tesoro non è facile. Penso che tutti noi, nella vita, abbiamo lasciato sul terreno qualche amicizia infranta. Perché, per conservare la vera amicizia, questa deve essere priva di calcoli e di vantaggi. Gesù ci ha insegnato con il suo esempio come coltivare e conservare l’amicizia. Ci ha insegnato a vincere il nostro egoismo cominciando ad amare per primi, a donare e a incontrare l’altro “patendo anche qualche torto” (1 Cor 6:7). Allora, con l’aiuto di Gesù, impariamo a vivere l’amicizia in modo elevato e intenso, che soprattutto sappia “fortificare la fiducia nel Signore” (1 Sam 23:16). (Ad. da “Piccole storie per l’anima” di B. Ferrero) [www.avventisti.it]
Il furbo imbianchino
Vi è mai successo di svolgere un compito o un lavoro controvoglia? A Tom, protagonista della storia che segue, capitò proprio questo. Per tutta la settimana Tom aveva progettato come divertirsi durante il fine settimana. Ma la zia, dovendo punirlo, gli diede secchio e pennello, col compito di verniciare la staccionata della sua proprietà lungo la strada. Tristemente e con tanta amarezza nel cuore, Tom intinse il pennello nel secchio della vernice e con gesto svogliato cominciò a passarlo sulla staccionata. La sua amarezza aumentò grandemente nel ricordarsi che di lì a poco sarebbero passati i suoi amici che si sarebbero fatti un mucchio di risate alle sue spalle, vedendolo costretto a lavorare mentre essi andavano a divertirsi. Ma, proprio mentre l’angoscia e l’amarezza stavano invadendo il suo cuore, ebbe un’ispirazione. E così, all’improvviso, cominciò a cantare e a fischiettare. Dopo un po’ di tempo apparve Ben, l’amico che Tom temeva di più per le sue prese in giro. Ben lo guardò per un poco, poi cominciò a punzecchiarlo: “Ah, ah, siamo in castigo, vero Tom?”. Ma Tom, facendo finta di non aver sentito, continuò a verniciare e a guardare compiaciuto il lavoro che aveva fatto. “Ehi, Tom, mi senti?”. L’interpellato si volse sorpreso e disse: “Ciao, Ben; non ti avevo visto”. “Sto andando a giocare a pallone; ci verresti? Ma già, tu sei in castigo e devi lavorare; ti capisco”, disse Ben. Tom gli lanciò un’occhiata stupita poi disse: “In castigo a lavorare? Ma che dici? Non capita tutti i giorni, a un ragazzo di avere una bella staccionata da verniciare”. Quest’affermazione pose la faccenda sotto una nuova luce. Intanto Tom continuava a spennellare con garbo, e di tanto in tanto si fermava per osservarne compiaciuto l’effetto. Ben seguiva le sue mosse con sempre maggiore interesse. Alla fine disse: “Senti, Tom, mi lasci dipingere un po’ anche a me?” “Non posso, Ben. La zia Polly è molto esigente per questa staccionata che è proprio qui, sulla strada. Vuole che il lavoro sia perfetto. Penso che non ci sia un ragazzo capace di farlo come si deve”. “Ma davvero? Lasciami provare; dài, Tom. Se fossi tu a chiederlo a me, io te lo lascerei fare”. “Possibile che non capisci la mia posizione? Se lo facessi, tu mi potresti combinare un pasticcio», rispose Tom. “Oh, sciocchezze. Avrei la stessa cura e attenzione che hai tu. Lasciami provare. Ti darò la mia mela!”. Allora Tom, apparentemente contrariato, ma con il cuore che batteva di contentezza, gli cedette il pennello. Mentre il suo amico Ben lavorava e sudava sotto il sole, Tom era seduto all’ombra e mangiava la sua mela dondolando le gambe e riflettendo come farla anche agli altri amici che sarebbero a momenti passati di lì. Presto, a brevi intervalli gli uni dagli altri, passarono altri ragazzi che si avvicinavano per deriderlo e, invece, rimanevano a verniciare. Prima che Ben smettesse, Tom aveva già concesso, sempre a pagamento, il privilegio di imbiancare a Billy, a Johnny e ad altri amici. Così, se l’era spassata comodamente mentre sulla staccionata c’erano ben tre mani di vernice!Secondo voi, perché gli amici di Tom, che si erano fermati per deriderlo, si trovarono poi a imbiancare la staccionata? Come ha fatto Tom a suscitare in loro il forte desiderio di imbiancare la staccionata? Forse perché ha fatto credere loro che era un privilegio poterlo fare. Una cosa è certa, che è stato molto convincente grazie anche a una buona dose di furbizia. Riflettendo bene, un amico come Tom non lo vorrei, perché con la sua astuzia ha in fondo sfruttato gli altri a proprio vantaggio. È vero, in questo modo a volte ci si può rendere la vita comoda ed essere addirittura ammirati per la propria astuzia, ma quante vere amicizie si riescono così a costruire? Prima o poi le persone imparano a diffidare di coloro che usano gli altri a proprio esclusivo vantaggio. (Rid. e ad. da «Le Avventure di Tom Sawyer», di M. Twain) [www.avventisti.it]
Frank e Ted erano due amici inseparabili, sempre insieme fin dalle scuole elementari. Frank era il più grande e aveva vent’anni, mentre Ted ne aveva diciannove. Un giorno, decisero di arruolarsi nell’esercito. Partendo, promisero a se stessi e ai loro genitori che avrebbero avuto cura l’uno dell’altro. Furono così fortunati che finirono nello stesso battaglione. Quel battaglione però venne mandato in guerra. Per diverso tempo Frank e Ted rimasero negli accampamenti protetti dall’aviazione. Poi, una sera, venne l’ordine di avanzare in territorio nemico. I soldati avanzarono per tutta la notte, sotto la minaccia di un fuoco infernale. Al mattino, il battaglione si radunò in un villaggio. Ma Ted non c’era. Frank lo cercò dappertutto, tra i feriti e tra i morti, ma non riuscì a trovarlo. Finalmente lo trovò nell’elenco dei dispersi. Così, si presentò subito dal suo comandante e disse: “Chiedo il permesso di andare a riprendere il mio amico Ted”. “È troppo pericoloso – rispose il comandante – insieme con il tuo amico ho già perso diversi uomini. Rischierei di perdere anche te, perché là fuori stanno sparando”. Ma Frank decise di partire ugualmente e, dopo un po’ di tempo, trovò Ted ferito mortalmente. Se lo caricò sulle spalle e si incamminò per ritornare all’accampamento. Durante il viaggio, però, una scheggia lo colpì mortalmente. Ma riuscì ugualmente a trascinarsi fino al campo. Quando arrivò i soldati chiamarono subito il comandate che, vedendo Frank in quelle condizioni, gli gridò: “Ti avevo detto di non andare? Valeva la pena morire per salvare un morto?”. “Sì – sussurrò Frank – perché prima di morire, Ted mi ha detto: Frank, sapevo che saresti venuto”. L’amicizia ha sempre affascinato l’umanità per la sua gratuità, per la sua capacità di dono, per il conforto e l’intimità che riesce a creare. Ecco perché si dice: “Chi trova un amico, trova un tesoro”. E un verso di una canzone di un famoso cantautore italiano recita: “Andrei certamente a piedi fino a Bologna per un amico in più”. Conservare, però, questo tesoro non è facile. Penso che tutti noi, nella vita, abbiamo lasciato sul terreno qualche amicizia infranta. Perché, per conservare la vera amicizia, questa deve essere priva di calcoli e di vantaggi. Gesù ci ha insegnato con il suo esempio come coltivare e conservare l’amicizia. Ci ha insegnato a vincere il nostro egoismo cominciando ad amare per primi, a donare e a incontrare l’altro “patendo anche qualche torto” (1 Cor 6:7). Allora, con l’aiuto di Gesù, impariamo a vivere l’amicizia in modo elevato e intenso, che soprattutto sappia “fortificare la fiducia nel Signore” (1 Sam 23:16). (Ad. da “Piccole storie per l’anima” di B. Ferrero) [www.avventisti.it]
Il furbo imbianchino
Vi è mai successo di svolgere un compito o un lavoro controvoglia? A Tom, protagonista della storia che segue, capitò proprio questo. Per tutta la settimana Tom aveva progettato come divertirsi durante il fine settimana. Ma la zia, dovendo punirlo, gli diede secchio e pennello, col compito di verniciare la staccionata della sua proprietà lungo la strada. Tristemente e con tanta amarezza nel cuore, Tom intinse il pennello nel secchio della vernice e con gesto svogliato cominciò a passarlo sulla staccionata. La sua amarezza aumentò grandemente nel ricordarsi che di lì a poco sarebbero passati i suoi amici che si sarebbero fatti un mucchio di risate alle sue spalle, vedendolo costretto a lavorare mentre essi andavano a divertirsi. Ma, proprio mentre l’angoscia e l’amarezza stavano invadendo il suo cuore, ebbe un’ispirazione. E così, all’improvviso, cominciò a cantare e a fischiettare. Dopo un po’ di tempo apparve Ben, l’amico che Tom temeva di più per le sue prese in giro. Ben lo guardò per un poco, poi cominciò a punzecchiarlo: “Ah, ah, siamo in castigo, vero Tom?”. Ma Tom, facendo finta di non aver sentito, continuò a verniciare e a guardare compiaciuto il lavoro che aveva fatto. “Ehi, Tom, mi senti?”. L’interpellato si volse sorpreso e disse: “Ciao, Ben; non ti avevo visto”. “Sto andando a giocare a pallone; ci verresti? Ma già, tu sei in castigo e devi lavorare; ti capisco”, disse Ben. Tom gli lanciò un’occhiata stupita poi disse: “In castigo a lavorare? Ma che dici? Non capita tutti i giorni, a un ragazzo di avere una bella staccionata da verniciare”. Quest’affermazione pose la faccenda sotto una nuova luce. Intanto Tom continuava a spennellare con garbo, e di tanto in tanto si fermava per osservarne compiaciuto l’effetto. Ben seguiva le sue mosse con sempre maggiore interesse. Alla fine disse: “Senti, Tom, mi lasci dipingere un po’ anche a me?” “Non posso, Ben. La zia Polly è molto esigente per questa staccionata che è proprio qui, sulla strada. Vuole che il lavoro sia perfetto. Penso che non ci sia un ragazzo capace di farlo come si deve”. “Ma davvero? Lasciami provare; dài, Tom. Se fossi tu a chiederlo a me, io te lo lascerei fare”. “Possibile che non capisci la mia posizione? Se lo facessi, tu mi potresti combinare un pasticcio», rispose Tom. “Oh, sciocchezze. Avrei la stessa cura e attenzione che hai tu. Lasciami provare. Ti darò la mia mela!”. Allora Tom, apparentemente contrariato, ma con il cuore che batteva di contentezza, gli cedette il pennello. Mentre il suo amico Ben lavorava e sudava sotto il sole, Tom era seduto all’ombra e mangiava la sua mela dondolando le gambe e riflettendo come farla anche agli altri amici che sarebbero a momenti passati di lì. Presto, a brevi intervalli gli uni dagli altri, passarono altri ragazzi che si avvicinavano per deriderlo e, invece, rimanevano a verniciare. Prima che Ben smettesse, Tom aveva già concesso, sempre a pagamento, il privilegio di imbiancare a Billy, a Johnny e ad altri amici. Così, se l’era spassata comodamente mentre sulla staccionata c’erano ben tre mani di vernice!Secondo voi, perché gli amici di Tom, che si erano fermati per deriderlo, si trovarono poi a imbiancare la staccionata? Come ha fatto Tom a suscitare in loro il forte desiderio di imbiancare la staccionata? Forse perché ha fatto credere loro che era un privilegio poterlo fare. Una cosa è certa, che è stato molto convincente grazie anche a una buona dose di furbizia. Riflettendo bene, un amico come Tom non lo vorrei, perché con la sua astuzia ha in fondo sfruttato gli altri a proprio vantaggio. È vero, in questo modo a volte ci si può rendere la vita comoda ed essere addirittura ammirati per la propria astuzia, ma quante vere amicizie si riescono così a costruire? Prima o poi le persone imparano a diffidare di coloro che usano gli altri a proprio esclusivo vantaggio. (Rid. e ad. da «Le Avventure di Tom Sawyer», di M. Twain) [www.avventisti.it]
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L'asino che osservò il Sabato
Questa storia, realmente accaduta in Bulgaria, ci fa capire che Dio può usare chiunque o qualunque cosa per insegnare una lezione importante. “Oggi non andrai in chiesa!”, gridò Ivan a sua moglie. “Lavorerai con me nell’orto”, Ivan era determinato a porre fine a quest’assurdità di riposare il sabato. Lidia trasalì. Aveva iniziato a frequentare gli incontri organizzati in città dagli avventisti e si era convinta che il sabato era il giorno speciale del Signore. Per diverse settimane era uscita di casa, il sabato, prima che suo marito potesse fermarla, ma un giorno Ivan le comunicò che il sabato seguente sarebbero andati dai suoi genitori per lavorare nell’orto e che non avrebbe accettato scuse. Lidia aveva cercato di spiegare a suo marito ciò che la Bibbia insegna sulle benedizioni dell’osservanza del giorno santo di Dio, però Ivan si era rifiutato di ascoltare. La donna pregò ogni giorno il Signore chiedendogli di intervenire, ma il sabato arrivò senza che fosse successo niente che le potesse i mpedire di andare con suo marito nell’orto. “Sbrigati!”, le gridò Ivan. “Va bene”, rispose Lidia. “Oggi verrò a casa dei tuoi genitori, ma non lavorerò nell’orto nel giorno santo di Dio”. “Se non lavorerai, allora non mangerai”, brontolò Ivan. Era sicuro che i suoi genitori l’avrebbero convinta della stupidità delle sue idee religiose. La coppia salì sul carretto trainato dall’asino e partì. Era quasi mezzogiorno quando arrivarono. Mentre Lidia aiutava sua suocera in cucina, Ivan cominciò a raccontare ai genitori le strane idee della moglie sul sabato, deridendola e facendola quasi piangere. Quando il pranzo fu in tavola, Ivan e i suoi genitori si sedettero per mangiare, ma Lidia andò in un’altra stanza perché sapeva che se avesse mangiato avrebbe dovuto lavorare. All’improvviso si sentì un forte trambusto fuori dalla porta. Un vicino chiamò Ivan: “Vieni, presto! È successo qualcosa al tuo asino”. L’uomo andò di corsa dove si erano radunate alcune persone e trovò l’asino steso per terra vicino alla strada. “Cosa gli è successo?, chiese Ivan. “Fino a un’ora fa stava bene”, aggiunse. L’uomo tirò l’asino per la cavezza e gli gridò di alzarsi, ma l’animale non si mosse. Gridò ancora, ma l’asino sembrava non sentire. I vicini lo aiutarono a tirare, spingere e strattonare l’animale nel tentativo di metterlo in piedi senza alcun successo. Alla fine, l’uomo si arrese e ritornò in casa. “Non riesco a capire che cos’ha quell’asino – disse scuotendo la testa – Senza di lui e del carretto non possiamo lavorare nell’orto”. Diverse volte, nel pomeriggio, Ivan cercò di far alzare l’asino che però rimase immobile. Intanto la sera si avvicinava e l’uomo si chiedeva preoccupato come avrebbero fatto a ritornare a casa. Intanto Lidia ringraziava silenziosamente Dio perché non doveva lavorare di sabato e pregava anche per la guarigione dell’asino, non voleva che morisse. Poi, proprio quando il sole stava tramontando, l’animale si mosse e si alzò. Ivan saltò in piedi, corse verso di lui e lo controllò, sembrava che fosse tutto a posto. I vicini furono shoccati nel vedere l’asino in piedi. Velocemente Ivan attaccò il carretto all’animale, chiamò Lidia e ripresero la strada di casa. La donna, felice nel vedere l’asino in salute, si sedette accanto al marito e bisbigliò silenziosamente una preghiera di ringraziamento. “Penso proprio che Dio abbia usato l’asino per aiutarmi a osservare il sa bato”, disse Lidia al marito mentre percorrevano la strada verso casa. Ivan non disse mai una parola sull’accaduto. Un giorno, quando Lidia comunicò al marito che desiderava far parte della Chiesa avventista, Ivan non glielo impedì. E l’asino? Aveva trotterellato fino a casa a passo svelto. Dopo tutto, aveva usufruito di un lungo pisolino! (Tratto da Best Ever Mission Stories 2 di Charlotte Ishkanian). [Lina Ferrara, www.avventisti.it]
Mary e la Bibbia
Oggi, se vogliamo avere una Bibbia non abbiamo problemi, possiamo acquistarla facilmente e ci sono versioni molto economiche, anche di pochi euro. Ma, sapete a chi dobbiamo questa possibilità? Vi racconto la sua storia. Era ormai notte quando Mary e sua madre tornarono a casa dalla riunione della chiesa. E mentre camminavano lungo la strada buia, Mary ricordava le parole del Salmo 119, ” La tua parola è una lampada al mio piede e una luce sul mio sentiero”. Come desiderava avere una Bibbia tutta sua dalla quale poter imparare a conoscere meglio Dio! Mary Jones viveva a Llanfihangel, un villaggio del Galles, in Gran Bretagna. Suo padre era stato un tessitore, ma era morto quando lei aveva quattro anni. Mary e sua mamma erano povere e tiravano avanti come meglio potevano. La piccola era molto interessata alle conversazioni sulla Bibbia e a 8 anni divenne membro della chiesa metodista. A un’ora dal suo villaggio vi era la scuola metodista che la bambina frequentava percorrendo ogni mattina due ore di strada a piedi. Mary leggeva costantemente la Bibbia della scuola, ma desiderava moltissimo averne una tutta per sé. Il problema era che, allora, le Bibbie costavano troppo e lei e sua mamma non potevano permettersene una. Mary doveva accontentarsi di andare ogni sabato pomeriggio, con il caldo e con il freddo, a casa della signora Evans, che abitava a 2 miglia di distanza, per leggere la Bibbia e imparare a memoria quanti più brani poteva. Un giorno, mentre stava lavando i panni al fiume, ebbe un’idea: poteva fare dei lavori domestici per guadagnare dei soldi e comprare una Bibbia tutta sua. Quando la signora Evans lo seppe, le regalò alcuni pulcini da allevare, così, una volta diventati galline, Mary avrebbe potuto vendere le uova e mettere da parte i soldi. La bambina trovò ben presto anche altri modi per guadagnare del denaro: accudiva altri bambini, puliva i giardini, lavorava a maglia. Dopo sei anni di attento risparmio, Mary finalmente ebbe i soldi necessari per acquistare una Bibbia. Ma nel suo villaggio non si vendevano. Bisognava andare a Bala, a più di 40 chilometri di distanza, e acquistarne una copia dal pastore metodista Thomas Charles. Nell’estate del 1800, a circa sedici anni, Mary si mise in cammino con il suo gruzzoletto di denaro, un po’ di pane e del formaggio, per andare a Bala. Si tolse anche le scarpe e le portò in mano, così non si sarebbero consumate. A Bala, dopo aver aspettato due giorni che le Bibbie arrivassero da Londra, il past. Charles le diede tre Bibbie al prezzo di una. Straordinariamente commosso dalla dedizione di questa ragazzina, Thomas Charles insistette con amici e conoscenti perché la Bibbia fosse accessibile e alla portata di tutti. Così, il 7 marzo 1804, con l’aiuto di un gruppo di credenti, nacque la Società Biblica Britannica e Forestiera che si proponeva una “più ampia distribuzione delle Scritture, senza note e commento”. Da allora, grazie al lavoro della Società Biblica, la Sacra Scrittura è diffusa in tutto il mondo. E questo lo dobbiamo alla fede di una bambina e alla sua grande sete di conoscere Dio. Un piccola fiammella ha acceso un grande fuoco che ancora arde forte. Cosa ne è stato della preziosa Bibbia di Mary Jones? Oggi, essa è conservata nella biblioteca dell’Università di Cambridge, in Gran Bretagna. [www.avventisti.it]
Questa storia, realmente accaduta in Bulgaria, ci fa capire che Dio può usare chiunque o qualunque cosa per insegnare una lezione importante. “Oggi non andrai in chiesa!”, gridò Ivan a sua moglie. “Lavorerai con me nell’orto”, Ivan era determinato a porre fine a quest’assurdità di riposare il sabato. Lidia trasalì. Aveva iniziato a frequentare gli incontri organizzati in città dagli avventisti e si era convinta che il sabato era il giorno speciale del Signore. Per diverse settimane era uscita di casa, il sabato, prima che suo marito potesse fermarla, ma un giorno Ivan le comunicò che il sabato seguente sarebbero andati dai suoi genitori per lavorare nell’orto e che non avrebbe accettato scuse. Lidia aveva cercato di spiegare a suo marito ciò che la Bibbia insegna sulle benedizioni dell’osservanza del giorno santo di Dio, però Ivan si era rifiutato di ascoltare. La donna pregò ogni giorno il Signore chiedendogli di intervenire, ma il sabato arrivò senza che fosse successo niente che le potesse i mpedire di andare con suo marito nell’orto. “Sbrigati!”, le gridò Ivan. “Va bene”, rispose Lidia. “Oggi verrò a casa dei tuoi genitori, ma non lavorerò nell’orto nel giorno santo di Dio”. “Se non lavorerai, allora non mangerai”, brontolò Ivan. Era sicuro che i suoi genitori l’avrebbero convinta della stupidità delle sue idee religiose. La coppia salì sul carretto trainato dall’asino e partì. Era quasi mezzogiorno quando arrivarono. Mentre Lidia aiutava sua suocera in cucina, Ivan cominciò a raccontare ai genitori le strane idee della moglie sul sabato, deridendola e facendola quasi piangere. Quando il pranzo fu in tavola, Ivan e i suoi genitori si sedettero per mangiare, ma Lidia andò in un’altra stanza perché sapeva che se avesse mangiato avrebbe dovuto lavorare. All’improvviso si sentì un forte trambusto fuori dalla porta. Un vicino chiamò Ivan: “Vieni, presto! È successo qualcosa al tuo asino”. L’uomo andò di corsa dove si erano radunate alcune persone e trovò l’asino steso per terra vicino alla strada. “Cosa gli è successo?, chiese Ivan. “Fino a un’ora fa stava bene”, aggiunse. L’uomo tirò l’asino per la cavezza e gli gridò di alzarsi, ma l’animale non si mosse. Gridò ancora, ma l’asino sembrava non sentire. I vicini lo aiutarono a tirare, spingere e strattonare l’animale nel tentativo di metterlo in piedi senza alcun successo. Alla fine, l’uomo si arrese e ritornò in casa. “Non riesco a capire che cos’ha quell’asino – disse scuotendo la testa – Senza di lui e del carretto non possiamo lavorare nell’orto”. Diverse volte, nel pomeriggio, Ivan cercò di far alzare l’asino che però rimase immobile. Intanto la sera si avvicinava e l’uomo si chiedeva preoccupato come avrebbero fatto a ritornare a casa. Intanto Lidia ringraziava silenziosamente Dio perché non doveva lavorare di sabato e pregava anche per la guarigione dell’asino, non voleva che morisse. Poi, proprio quando il sole stava tramontando, l’animale si mosse e si alzò. Ivan saltò in piedi, corse verso di lui e lo controllò, sembrava che fosse tutto a posto. I vicini furono shoccati nel vedere l’asino in piedi. Velocemente Ivan attaccò il carretto all’animale, chiamò Lidia e ripresero la strada di casa. La donna, felice nel vedere l’asino in salute, si sedette accanto al marito e bisbigliò silenziosamente una preghiera di ringraziamento. “Penso proprio che Dio abbia usato l’asino per aiutarmi a osservare il sa bato”, disse Lidia al marito mentre percorrevano la strada verso casa. Ivan non disse mai una parola sull’accaduto. Un giorno, quando Lidia comunicò al marito che desiderava far parte della Chiesa avventista, Ivan non glielo impedì. E l’asino? Aveva trotterellato fino a casa a passo svelto. Dopo tutto, aveva usufruito di un lungo pisolino! (Tratto da Best Ever Mission Stories 2 di Charlotte Ishkanian). [Lina Ferrara, www.avventisti.it]
Mary e la Bibbia
Oggi, se vogliamo avere una Bibbia non abbiamo problemi, possiamo acquistarla facilmente e ci sono versioni molto economiche, anche di pochi euro. Ma, sapete a chi dobbiamo questa possibilità? Vi racconto la sua storia. Era ormai notte quando Mary e sua madre tornarono a casa dalla riunione della chiesa. E mentre camminavano lungo la strada buia, Mary ricordava le parole del Salmo 119, ” La tua parola è una lampada al mio piede e una luce sul mio sentiero”. Come desiderava avere una Bibbia tutta sua dalla quale poter imparare a conoscere meglio Dio! Mary Jones viveva a Llanfihangel, un villaggio del Galles, in Gran Bretagna. Suo padre era stato un tessitore, ma era morto quando lei aveva quattro anni. Mary e sua mamma erano povere e tiravano avanti come meglio potevano. La piccola era molto interessata alle conversazioni sulla Bibbia e a 8 anni divenne membro della chiesa metodista. A un’ora dal suo villaggio vi era la scuola metodista che la bambina frequentava percorrendo ogni mattina due ore di strada a piedi. Mary leggeva costantemente la Bibbia della scuola, ma desiderava moltissimo averne una tutta per sé. Il problema era che, allora, le Bibbie costavano troppo e lei e sua mamma non potevano permettersene una. Mary doveva accontentarsi di andare ogni sabato pomeriggio, con il caldo e con il freddo, a casa della signora Evans, che abitava a 2 miglia di distanza, per leggere la Bibbia e imparare a memoria quanti più brani poteva. Un giorno, mentre stava lavando i panni al fiume, ebbe un’idea: poteva fare dei lavori domestici per guadagnare dei soldi e comprare una Bibbia tutta sua. Quando la signora Evans lo seppe, le regalò alcuni pulcini da allevare, così, una volta diventati galline, Mary avrebbe potuto vendere le uova e mettere da parte i soldi. La bambina trovò ben presto anche altri modi per guadagnare del denaro: accudiva altri bambini, puliva i giardini, lavorava a maglia. Dopo sei anni di attento risparmio, Mary finalmente ebbe i soldi necessari per acquistare una Bibbia. Ma nel suo villaggio non si vendevano. Bisognava andare a Bala, a più di 40 chilometri di distanza, e acquistarne una copia dal pastore metodista Thomas Charles. Nell’estate del 1800, a circa sedici anni, Mary si mise in cammino con il suo gruzzoletto di denaro, un po’ di pane e del formaggio, per andare a Bala. Si tolse anche le scarpe e le portò in mano, così non si sarebbero consumate. A Bala, dopo aver aspettato due giorni che le Bibbie arrivassero da Londra, il past. Charles le diede tre Bibbie al prezzo di una. Straordinariamente commosso dalla dedizione di questa ragazzina, Thomas Charles insistette con amici e conoscenti perché la Bibbia fosse accessibile e alla portata di tutti. Così, il 7 marzo 1804, con l’aiuto di un gruppo di credenti, nacque la Società Biblica Britannica e Forestiera che si proponeva una “più ampia distribuzione delle Scritture, senza note e commento”. Da allora, grazie al lavoro della Società Biblica, la Sacra Scrittura è diffusa in tutto il mondo. E questo lo dobbiamo alla fede di una bambina e alla sua grande sete di conoscere Dio. Un piccola fiammella ha acceso un grande fuoco che ancora arde forte. Cosa ne è stato della preziosa Bibbia di Mary Jones? Oggi, essa è conservata nella biblioteca dell’Università di Cambridge, in Gran Bretagna. [www.avventisti.it]